Di seguito il secondo intervento di Umberto Balin, Presidente del C.d.A. di Integrè SPA STP Società Benefit, sul tema, avviato la settimana scorsa, del passaggio generazionale in azienda.
La settimana scorsa ci siamo concentrati sui problemi causati alla continuità delle aziende del mancato passaggio generazionale. La riluttanza dei genitori ad affrontare il tema spinoso di cosa accadrà quando loro non saranno più in forze ed al comando. La difficoltà delle nuove generazioni a continuare con identici presupposti la gestione delle aziende che ereditano.
Passiamo adesso a vedere come curare questo male atavico.
Ci sono tanti modi in cui si può programmare il passaggio nella propria azienda. Tra le possibili soluzioni possiamo enumerare, ad esempio:
- dei patti parasociali,
- un affitto di azienda prodromico alla sua cessione,
- un usufrutto di azienda con lo stesso fine,
- un vero e proprio family buy/out dell’azienda o di suoi vari spezzoni,
- la costituzione di un trust,
- la costituzione di una fondazione,
- la creazione di una holding familiare, con patti parasociali, sopra l’azienda operativa,
- la gestione mediante una società semplice sopra l’azienda operativa,
- l’entrata di altri soci in o sopra l’azienda operativa,
- la creazione di diverse qualità di azioni, con voti plurimi o limitati,
- la incorporazione dell’azienda in una polizza assicurativa,
- la previsione di alcune donazioni,
- la sottoscrizione di opportuni patti di famiglia
- altre ancora.
La necessità di lavorare con l’ausilio di esperti professionisti deriva dal fatto che in Italia, per effetto della tradizione romanistica e a differenza che in altri paesi di ispirazione prevalentemente anglosassone, oltre ai patti pre-divorzili sono vietati, per effetto dell’art. 458 c.c., anche i patti successori.
Quindi, nessuno può rinunziare ai propri diritti successori prima della scomparsa del de cuius, ma neppure nessun accordo spartitorio o di destinazione ante mortem è valido. Per converso, tranne casi limitatissimi e patologici, non esiste la possibilità di “diseredare” qualcuno. Prevale comunque sempre il diritto alla quota di “legittima”. Eventuali donazioni squilibrate, palesi o no, effettuate in vita non tengono post mortem. Si badi che qui non si parla di atti traballanti, ma di atti “nulli”, la cui nullità può essere invocata da chiunque: incidentalmente da un giudice, da una banca, da un creditore, oltre che dai diretti interessati.
Esistono alcuni meccanismi giuridici raffinati, ma anche pericolosissimi, a cui pochi imprenditori/genitori pensano durante l’arco della propria vita. Si tratta di norme poste a presidio dei deboli, delle distrazioni dolose, ma anche colpose, o anche solo eccessivamente inaccurate.
Di fatto, il sistema giuridico italiano, che si applica usualmente quando il de cuius è un cittadino residente, tende a fare una ricompattazione di tutto quello che i genitori hanno donato in vita con quello che abbandonano alla loro scomparsa. La massa ereditaria quindi è la somma del relictum e del donatum. È quindi irrilevante che alla morte uno abbia già disposto di gran parte dei propri beni, che sia magari nullatenente, si andrà a rivedere tutto quello che ha fatto/donato in vita.
La prima istituzione da considerare è la collazione, per mezzo della quale si è obbligati a riconferire ai coeredi tutto quanto si è ricevuto per donazione dal defunto mentre era in vita. Non importa quando i nostri genitori ci hanno favorito, tutto viene rimesso sul tavolo, ripesato e ridiviso.
La seconda azione esperibile è quella di restituzione, con essa si ha addirittura l’effetto per cui il bene rifluisce nell’asse ereditario, anche se è nel frattempo già stato alienato a terzi. L’azione, quindi, non affetta solo il donatario, ma anche tutti i suoi aventi causa. Questa è la ragione per cui le banche, prima di farvi un mutuo, chiedono la relazione ventennale. Se il bene è in precedenza passato per donazione, anche se voi lo avete acquistato al giusto prezzo e in buona fede, il vostro diritto di proprietà potrebbe essere vanificato e con esso la ipoteca della banca. Questa è anche la ragione per cui se un genitore vuole far avere un bene immobiliare ad un figlio, ma vuole permettergli di fare leva sul bene stesso per contrarre un mutuo, o anche solo per metterlo a garanzia dei finanziamenti per l’azienda, è bene che il bene in questione sia formalmente venduto e non donato. Altrimenti il figlio si troverebbe ad essere possidente, ma con nulla capacità cauzionale verso il sistema bancario.
La terza azione è quella di riduzione, la riconduzione alla proporzionalità dei lasciti testamentari troppo a favore di alcuno dei successori. Questa ipotesi è la più facile da comprendere e serve a riallineare il testamento, per evitare favoritismi esagerati a vantaggio di alcuno e scapito di altri.
Il vero problema è che queste azioni possono essere esperite fino a 10 anni post mortem del de cuius, o 20 anni dal momento della donazione ed anche presso terzi!!
In aggiunta i valori da prendere a riferimento non sono quelli storici, ma quelli ricalcolati al momento della morte.
Proviamo a fare un banale esempio.
Nel 2022 un genitore dona:
- un’azienda del valore attuale di 1m€ al figlio A,
- un immobile del valore attuale di 1m€ al figlio B.
Nel 2032 avviene il decesso di quel genitore:
- l’azienda magari ha un valore in allora di 3m€ in capo al figlio A,
- l’immobile potrebbe avere un valore in allora 0,7m€ in capo al figlio B.
Ne discenderebbe che il figlio B potrebbe chiedere la riduzione, in quanto i valori del donatum si rideterminano al momento della morte. Un’ulteriore complicazione poi deriverebbe dal fatto che il figlio A cercherebbe di asserire che è stata la propria opera personale ad accrescere il valore aziendale da 1 a 3 m€, mentre il figlio 2 direbbe che è stato il normale trascinamento del lascito paterno. Ne nascerebbe una causa decennale, con definizione in cassazione, CTP, CTU e qualche centinaio di migliaia di euro di spese legali, oltre alla distruzione della affezione familiare e forse della stessa azienda.
Il fatto di non poter fare “figli e figliastri”, o di non poter diseredare non è un assoluto. Ogni genitore può – in qualche maniera – disporre di una quota liberamente attribuibile del proprio asse successorio. A seconda della composizione familiare, un terzo o un quarto del patrimonio può essere dato asimmetricamente, o addirittura al di fuori della cerchia dei parenti stretti. Per capirci, quindi, un genitore con un patrimonio di 1000, un coniuge e due figli, deve riservare almeno ¼ al coniuge e ¼ ciascuno ai due figli. Gli resta ¼ di cui può disporre liberamente. Questa quota potrebbe andare alla parrocchia, o anche a uno dei figli in aggiunta alla quota di legittima.
Potremmo quindi mettere in atto una prima pianificazione successoria con ¼ al coniuge, ¼ ciascuno ai due figli e ¼ alla parrocchia.
Oppure anche con ¼ al coniuge, ¼ ad un figlio e ½ all’altro figlio.
Entrambe le disposizioni sarebbero lecite, ma se la quota gestita asimmetricamente fosse stata più di ¼, la disposizione non avrebbe tenuto.
Quindi, come se ne esce?
O facendo la donazione in comunione agli eredi, i quali poi si fanno l’atto di divisione. Tutti hanno ricevuto la propria quota percentuale, le spartizioni successive se le sono convenute loro, quindi non sono soggette all’alea del ricalcolo al momento della morte del disponente.
O con altri sistemi, tra i quali il Patto di Famiglia previsto dagli Artt. 768 bis ss.
Ma di questo parleremo alla prossima puntata.